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Quando l’Inter parlava con la voce di un solo uomo: gli anni leggendari di Virgilio Fossati

Ci sono stagioni nella storia del calcio che non si misurano in gol o trofei, ma nel modo in cui un uomo cambia un destino collettivo. Gli anni di Virgilio Fossati all’Inter, dal 1908 al 1915, appartengono a questa categoria. Furono anni di lotta, di pionieri, di campi fangosi e palloni pesanti. Ma furono anche gli anni in cui un ragazzo milanese trasformò una squadra appena nata in un simbolo di identità e coraggio.

Il capitano del club che non esisteva ancora

Quando Fossati entra nella storia dell’Inter, la società ha solo pochi giorni di vita. Non ci sono dirigenti esperti, non c’è una sede vera, non esistono magazzinieri né allenatori. C’è solo un’idea: essere “Internazionale”, aperti al mondo. In quel vuoto organizzativo, Fossati non è solo un giocatore: diventa il punto di riferimento, l’uomo che tutti ascoltano.

Indossa la fascia da capitano, ma il suo ruolo va oltre. Organizza allenamenti, decide le tattiche, incoraggia i compagni, parla con la dirigenza. È il primo capitano-allenatore dell’Inter, quando ancora il termine allenatore non esisteva.

Il primo derby della storia

18 ottobre 1908, Chiasso. Nasce uno dei riti più intensi del calcio: il Derby di Milano. L’Inter perde 2-1, ma ciò che resta impresso è l’atteggiamento della squadra. In campo, Fossati non abbassa mai la testa. Parla, corregge, compatta. Quel giorno, l’Italia calcistica scopre che la neonata Inter ha già un generale in campo.

I giornali cominciano ad accorgersi di lui. Non è il più tecnico, né il più spettacolare, ma tutti vedono quel dono raro: la capacità di guidare.

La costruzione di una squadra

La stagione 1909-1910 è decisiva. L’Inter ha talenti, ma manca identità. Fossati capisce che per vincere non bastano i nomi, serve un’anima comune. Così prende decisioni radicali: allontana chi non crede nel progetto, convince giovani emergenti come Ermanno Aebi e il portiere Piero Campelli a unirsi alla squadra.

Introducendo un’idea rivoluzionaria per l’epoca, organizza il primo ritiro della storia dell’Inter, ritirando la squadra per giorni in una casa fuori città. L’obiettivo non è fisico: è mentale. Parla singolarmente con ogni compagno, studia caratteri e reazioni. Più che un calciatore, sembra un comandante.

24 aprile 1910: il giorno del primo scudetto

Lo spareggio per il titolo contro la Pro Vercelli è più di una partita. È una presa di coscienza. Gli avversari schierano una squadra di riserva per protesta, ma Fossati impone ai suoi di rispettare il gioco. “Vinciamo con dignità”, dice. Segna due gol, alza lo sguardo e dirige l’Inter come un capitano di marina in mezzo alla tempesta.

Quando l’arbitro fischia la fine, nasce l’Inter vincente. Nessuno alza trofei, non ci sono caroselli. Ma in quell’istante, negli occhi di Fossati, si legge qualcosa: l’Inter non è più una squadra, è una famiglia.

Il centrocampista che anticipava il futuro

In campo, Fossati gioca da centromediano metodista, un ruolo che all’epoca non ha ancora nome. Imposta, difende, lancia. È il cervello, non solo il cuore. Ha un fisico alto e slanciato, colpisce bene di testa, ma la sua arma è la visione di gioco. Anticipa movimenti, costruisce azioni, pensa prima degli altri.

Oggi si direbbe che è un allenatore in campo. Allora, si diceva solo una cosa: “Dove c’è lui, l’Inter non si perde”.

Il delegato dell’onore

Le sconfitte non mancano. Nel 1911 e 1912 l’Inter vive campionati difficili. Ma anche nei momenti cupi, Fossati resta il volto della squadra. Quando c’è da parlare con gli arbitri, va lui. Quando c’è da difendere un compagno punito, parla lui. Quando nel 1913 viene inaugurato il campo di via Goldoni, è lui che guida i nerazzurri in campo. Tutti i nuovi arrivati devono passare prima da uno sguardo: il suo.

Il rispetto degli avversari

Anche le altre squadre lo temono e lo rispettano. Giuseppe Milano, capitano della Pro Vercelli, lo considera il suo pari. Dopo duri scontri in campo, i due si abbracciano in Nazionale. Si racconta che in una gara, un giovane avversario, dopo essere stato atterrato da lui, si rialzò e disse: “Se mi abbatte Fossati, non mi lamento”.

Un capitano senza eredi

Il 16 maggio 1915 gioca la sua ultima gara in nerazzurro. Nessuno sa che sarà l’ultima. Pochi giorni dopo viene chiamato alle armi. Lascia la squadra con un messaggio ai compagni:
“L’Inter è più grande di noi. Proteggetela.”
Sono parole che oggi suonano come un testamento.

L’eredità invisibile

Non lasciò foto in posa, non alzò coppe davanti al pubblico. Lasciò l’esempio. Le future generazioni interiste troveranno nella storia un nome sobrio, quasi dimenticato: Virgilio Fossati. Ma ogni volta che un capitano dell’Inter bacia la maglia, c’è un frammento di lui in quel gesto.

Non era solo un calciatore. Fu il primo a capire che l’Inter non doveva essere una squadra di calcio, ma un ideale. E per questo merita non di essere ricordato, ma di essere tramandato.

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