Non tutti gli eroi hanno una tomba. Alcuni vengono consegnati al vento della memoria, senza più un corpo da onorare. Così finisce la storia di Virgilio Fossati, primo capitano dell’Inter, caduto in guerra nel 1916. Ma la parte più sorprendente non è la sua morte: è ciò che accadde dopo. Il suo corpo, infatti, non fu mai trovato.
Per molti, è una semplice nota storica. Per chi ama l’Inter, è una ferita che non ha mai smesso di sanguinare.
L’uomo che lasciò il calcio per la patria
Quando nel maggio 1915 l’Italia entra nella Prima guerra mondiale, i campionati si fermano. Molti calciatori cercano esoneri, altri temono l’addio al campo. Fossati no. Si arruola volontario. Avrebbe potuto evitare il fronte: era stato esentato per studio. Invece parte. Non da idolo, ma da ufficiale. Come sempre, davanti ai suoi uomini.
Viene assegnato all’8º Reggimento Fanteria, Brigata Cuneo. Diventa capitano. Il calcio resta lontano. Ma nei rari momenti di tregua, organizza partite improvvisate tra i soldati. Nei quaderni della Gazzetta dello Sport, corre voce:
“Fossati arbitra al fronte. Non gioca, ma dà coraggio.”
25 giugno 1916: l’ordine che cambiò tutto
La Brigata Cuneo riceve l’ordine di avanzare verso Monfalcone, sul fronte dell’Isonzo. Il terreno è fango, filo spinato e silenzio. Il 29 giugno, prima dell’assalto, Fossati pronuncia una frase riportata da un compagno:
“Non torneremo tutti. Chi resta, porti con sé l’onore.”
Poi parte. Guida l’assalto. Non si inginocchia, non si protegge. Marcia. Nell’avanzata, rimane impigliato nel filo spinato. Cerca un varco per i suoi. Una pallottola lo colpisce. Cade. Ma non cade solo: cade continuando a incitare i soldati. Così scrissero i testimoni.
Nessun corpo, nessun ritorno
E qui nasce il mistero. Il suo corpo non fu mai recuperato. La battaglia fu violentissima: i caduti restarono tra i reticolati. Le linee cambiarono. Nessuno poté tornare.
Il giorno dopo, i giornali non diedero la notizia. Nessuno era certo della sua morte. Per settimane, alcuni credettero che fosse prigioniero. Altri che fosse ferito. Solo più tardi, l’esercito confermò: disperso in combattimento.
Per l’Inter fu un lutto senza sepoltura. Il capitano più grande non ebbe funerale.
Nessuno poté dire addio.
Un club spezzato dalla guerra
Pochi ricordano un fatto impressionante: l’Inter fu la squadra italiana più colpita dalla guerra. Persero la vita oltre trenta tra giocatori e dirigenti. Ma il nome più doloroso restò il suo. I tifosi non avevano posto dove portare un fiore. Il suo nome smise di essere pronunciato negli stadi, ma continuò a vivere nelle pause, nei silenzi.
Il capitano fantasma
Negli anni successivi, i nuovi giocatori dell’Inter sentivano ancora parlare di lui. Non nei discorsi ufficiali, ma nei corridoi, nelle testimonianze dei vecchi dirigenti. Nessuno lo descriveva come un semplice atleta. Ma come qualcosa di più grande.
“Era la nostra voce”, disse un ex compagno.
“Era un signore”, scrisse Vittorio Pozzo, il commissario tecnico, che lo aveva convinto all’arruolamento e che per tutta la vita si sentì responsabile.
L’Inter che non dimenticò
Nel 1928, tredici anni dopo la sua morte, il club decide finalmente di fare un gesto. Intitola il Campo di via Goldoni a Virgilio Fossati. Una cerimonia sobria, senza musica. I vecchi compagni posano una lapide. Non c’è bara. Non c’è nome inciso su marmo. Solo una promessa:
“Nessuno muore se qualcuno lo porta.”
Una memoria senza monumento
Mentre altri campioni caduti in guerra ebbero monumenti, Fossati rimase leggenda orale. Nessun corpo da piangere, nessuna tomba da visitare. E forse proprio per questo, la sua memoria sopravvive. Invisibile, come le fondamenta di una casa. Nessuno le vede, ma senza quelle non resta nulla.
Una curiosità che diventa simbolo
Ecco la domanda che molti non si fanno: come può un club ricordare un uomo che non è mai tornato? La risposta è semplice: non lo ricorda con una statua. Lo ricorda con un’idea.
Ogni volta che l’Inter scende in campo, entra qualcosa che non ha numero di maglia. È lo spirito dei pionieri. Di chi scelse la lealtà invece del successo. Di chi morì non con un pallone tra i piedi, ma con una bandiera nel petto.
L’ultimo gesto: fede nella causa
La sua medaglia al valor militare recita:
“Cadeva colpito a morte incitando i soldati ad avere fiducia nell’esito vittorioso.”
Fiducia. La stessa parola che usò nello spogliatoio dell’Inter. La stessa che lasciò in eredità a un club intero.
Non tutti i capitani alzano coppe. Alcuni cadono nel fango. Ma se il calcio ha un senso che supera il gioco, lo si deve a uomini come Virgilio Fossati: il capitano che l’Inter non poté seppellire, perché apparteneva già alla leggenda



