Gianni Brera, penna somma del giornalismo sportivo, definì Corso il participio passato del verbo correre. Era ironia intellettuale, non insulto: una fotografia di un calciatore che misurava le energie per investirle nel momento e nel gesto decisivo. Nasce così una curiosità che ancora oggi fa sorridere e discutere.
Correre meno per far correre la palla
Corso ribatteva con i fatti: non si resta tanti anni all’Inter se non si corre. Aveva ragione e torto insieme. Correva diversamente, perché faceva muovere il pallone e, con lui, gli avversari. Il campo confermava che quello stile, nell’economia di una grande squadra, era non solo sostenibile, ma vincente.
Grinta e contrasti, oltre il cliché
Dietro la leggenda del flâneur del pallone c’era un giocatore pronto al corpo a corpo. Sapeva farsi rispettare e soffrire, dentro un calcio fisico e talvolta spigoloso. La sua tecnica era un’arma, non una fuga dalla battaglia.
Il soprannome più dolce
Il sinistro di Dio: altro soprannome, altra narrazione. È la definizione che i rivali riconoscono quando non sanno più come spiegare l’effetto del suo piede. Se Brera cercava il paradosso per raccontare Corso, il campo cercava gli aggettivi per limitare la meraviglia.
L’abisso creativo tra forma e sostanza
Il dualismo tra estetica e produttività, in lui, non esistette. I colpi di classe arrivavano in momenti chiave; i lanci millimetrici sbloccavano pressioni; le punizioni sgonfiavano la paura. La sostanza indossava l’abito della forma, e la forma costruiva risultato.
Echi su nuove generazioni
Giornalisti e tecnici hanno accostato, per spirito e fantasia, figure successive a Corso: da Evaristo Beccalossi fino a paralleli più larghi con Ryan Giggs per ampiezza di gesto. Nessuna fotocopia: il suo sinistro resta pezzo unico, ma l’idea di qualità che orienta la partita è passata di mano in mano.
La forza dei racconti che restano
Le etichette di Brera e i soprannomi popolari hanno fissato l’immagine. Ancora oggi, discutere di Corso significa parlare di come si interpreta il talento. Il mito resiste perché è pieno di contraddizioni feconde: corsa e non corsa, estetica e concretezza, ordine e ispirazione.



